Tratto da "Letti da rifare" di A. D'Avenia
«Tutto ha senso, anche questo sassetto. E se sapessi quale sarei il Padre Eterno. Ma se questo sassetto è inutile, allora tutto è inutile... Anche le stelle». Così dice il Matto a Gelsomina in una dolceamara scena della Strada di Fellini, in cui la donna si lamenta del fatto che la sua vita non serve a nulla. Il Matto, gentile acrobata ambulante, ha la capacità di trovare il sublime nel quotidiano, per questo non perde mai il buon umore e le dà speranza. Un’arte che richiede non poco impegno: molto più comodo il lamento (di cui spesso noi Italiani siamo campioni) che rende sterile il potere creativo dell’indignazione. La pigrizia usa spesso la maschera del pessimismo, disinnesca la rivolta e consente di rimanere inerti di fronte al male. Rivoluzionario è invece fronteggiare il male e rimanere di buon umore, perché solo così possiamo combatterlo e scorgere, anche se con impegno e pazienza maggiori, il vero brillare delle cose e delle persone. Certo è difficile scovare la bellezza sottile, offuscata dalla fatica dei giorni, ma se non impariamo a trovare la nostra «casa» ci sentiremo inutili e in esilio. Abitare viene dal latino avere (habeo), ma nella forma frequentativa, quindi abitare è «continuare ad avere»: è qualcosa che rimane anche quando tutto attorno si muove e si perde. In un’epoca in cui tutto sembra precario, imparare ad abitare, a fare casa dentro e fuori di sé, è essenziale per essere felici. Come? Io «abito», possiedo me stesso e il mondo, quando leggo l’Odissea, quando preparo una lezione con cura e vedo i miei ragazzi gioire, quando ascolto una sonata di Beethoven, che è sempre lì qualsiasi cosa accada, quando sostengo un amico piegato dal dolore o creo con lui un progetto ambizioso, quando riesco a scrivere righe eleganti e veritiere... Solo la coltivazione della vita interiore trasforma qualsiasi caos in casa. Per questo mi stupisce la lentezza con cui troviamo la bellezza «minuta», che sta appunto nei singoli minuti e rende il mondo casa. Il mio compito di insegnante e narratore è, come quello del Matto, rendere percepibile questa bellezza, perché l’unico modo per essere felici è abitare, ovunque.
Esco tutte le mattine in cerca di prede in cui sublime e quotidiano sono annodati. Si celano nei luoghi in cui la bellezza si è rifugiata. L’arte ha perso l’amore per l’uomo e la realtà e, non sapendo più come raggiungerli, parla di se stessa e si riduce a comunicazione. Invece la vera bellezza è comunione con gli altri e apertura alla realtà, non la puoi cacciare dal mondo, come il maestoso cigno che apparve, divino, a Baudelaire in un vicolo oscuro di Parigi. Per questo amo i luoghi comuni: nascondono sempre un fondo di luminosa verità, come quel cigno o come il sasso del Matto. Così oggi la bellezza ha più democraticamente trovato rifugio nelle cose che diamo per scontate: il cibo, la casa, gli abiti.
Agli chef sono richieste verità esistenziali, perché trasformano il cibo, nella sua basilare quotidianità, in bellezza che va oltre la mera funzionalità di nutrirsi: la tavola è relazione di volti e storie. Il cibo si è «estetizzato», come accade a tutte le cose su cui si proietta il nostro desiderio di infinito. Qualche tempo fa mi colpì un’intervista a René Redzepi, famoso chef danese che ha portato il suo ristorante, sul porto di Copenaghen, in vetta alla cucina mondiale, basandosi sulla ricerca e trasformazione di prodotti locali, dai licheni alle fragole. Il Noma, in cui bisogna prenotare con mesi di anticipo per trovare posto, «incarna tutto quello che siamo: i prodotti stagionali, la nostra cultura e la nostra storia. I Danesi mangiano e cucinano da secoli e si è sviluppato naturalmente un modo di cucinare, ma è molto semplice, rustico e in realtà non molto raffinato. Abbiamo fatto scalpore con la scelta di non usare le tovaglie, ma massicci e nudi tavoli di legno». Nelle sue parole ho trovato uno dei motivi per cui oggi la cucina ci attira tanto: «Penso che il problema sia il tempo. Per cucinare ci vuole tempo. Sembra che ci sia una miriade di cose più importanti di cucinare. Quindi molte persone hanno perso il legame con la cucina, ma credo che altre abbiano ancora interesse per il cibo e, quindi, per la cucina, che è un modo di esplorare il mondo». Siamo alla ricerca del tempo perduto, racchiuso in una storia di cui vogliamo sentirci parte, o vogliamo recuperare il tempo sprecato senza creare legami. La cucina crea legami, perché noi, diversamente dagli animali, non mangiamo per nutrirci, ma per stare insieme mentre ci nutriamo. Così sublime e quotidiano si fondono nell’atto più ordinario, stare a tavola: ridare tempo alla tavola è darlo ai legami. Il cibo può allora svelare la sua dimensione conoscitiva e trascendente, perché contiene e crea tempo, donando la memoria della terra, la storia degli antenati e le relazioni tra i presenti.
Qualcosa di analogo accade anche in architettura. La bellezza, prima appannaggio degli edifici sacri, si è trasferita su costruzioni per il quotidiano vivere. Gli architetti divengono non a caso «star», e ricordano all’uomo stordito dalla frenesia che esiste uno spazio sottratto alla routine asfissiante, e gli dei possono abitare ancora in città come sapevano i costruttori delle acropoli in Grecia. Così, dovunque siate a Londra, vedrete svettare lo Shard di Renzo Piano, scheggia rivolta al cielo, o potrete aggirarvi nel quartiere milanese di City Life tra torri, case, giardini di Libeskind e Zaha Hadid. La casa diventa quello che potrebbe, vorrebbe, dovrebbe essere: abitare. Tutte le grandi storie, dall’Odissea a Guerra e Pace, finiscono con gente che torna a casa o si accasa, perché è lì che l’equilibrio è cercato, è nell’ambiente familiare che non ci viene chiesta nessuna prestazione, ma siamo amati — si spera — per quello che siamo. Non siamo fatti per vivere raminghi, ma per abitare, cioè avere un posto in cui si può riportare e ricomporre tutto. E oggi che, come turisti, sfioriamo le cose senza goderne, riusciamo a raggiungerle solo quando dimoriamo interiormente in esse, quando le abitiamo, cioè «continuiamo ad averle». Le case-capolavoro significano la nostra nostalgia di legami solidi, armonici, naturali. Così come per il tempo, andiamo in cerca dello spazio perduto o di quello sprecato. Proprio Zaha Hadid, in una delle ultime interviste, a chi le chiedeva perché nei suoi progetti non ci fossero linee o angoli retti, rispondeva: «Perché la vita non è fatta su carta millimetrata. I paesaggi naturali non sono uniformi e regolari, ma la gente va in questi luoghi e li trova rilassanti. Si può fare lo stesso in architettura». Ci era arrivato già Gaudí. Cerchiamo naturalezza, armonia e legami nello spazio quotidiano, capace di sanare l’angoscia, quella sì millimetrata, che il mondo esterno ci impone con la sua corsa alla performance.
Infine gli abiti. Anche gli stilisti oggi sono diventati un riferimento culturale. Le loro passerelle durano un battito d’ali, ma sono attese come rivelazioni sull’uomo. Anche nell’abito, parola chiaramente legata ad abitare, sublime e quotidiano si incontrano, tradendo la nostra nostalgia per il corpo umano, spesso svilito e usato. Abbiamo bisogno di abitare il corpo, di «continuare ad avere» casa nel nostro corpo e non viverlo come un oggetto da manipolare. Quando l’abito è al servizio del microcosmo del corpo umano, colori e forme sanano le ferite della nostra fisicità. Abbiamo necessità di sentire i nostri corpi rispettati e protetti dalla violenza. Non tutti gli stilisti ne sono capaci, anzi alcuni fanno il contrario riducendo il corpo a un manichino, al contrario di Atena che rivestiva l’amato Ulisse di grazia (charis), qualità divina che rendeva le membra, offuscate dalla fatica del mare, luminose e vive. Oggi puntiamo a rendere il corpo prestante, una prestazione di noi stessi che lo rende opaco, invece che trasparente, cioè capace di mostrare chi siamo davvero, eppure preferiamo le persone «trasparenti», quelle che abitano il corpo come una casa accogliente, a quelle «oscure», in cui il corpo fa da ostacolo.
Non voglio magnificare eccessi e assurdità presenti negli ambiti descritti, spesso guidati da consumismo e disprezzo della misura. Non è un elogio cieco, ma solo l’intercettazione dell’aspirazione contemporanea di restituire luce al grigiore quotidiano. La vera bellezza intercetta il desiderio di infinito e lo disseta nel finito, offrendoci momenti di intensa gioia proprio nei «minuti» di cui sono fatte le 24 ore. Il letto da rifare oggi è trovare il modo di coltivare la pienezza e profondità del minuto, senza la quale il quotidiano, ridotto a ripetizione dell’uguale, ci soffoca. L’addensarsi della bellezza attorno alla tavola, alla casa, all’abito, ci indica ciò di cui abbiamo nostalgia: il tempo, lo spazio, il corpo, necessari per creare relazioni profonde e rigeneranti con gli altri e il mondo. Siamo chiamati a diventare un po’ più chef, architetti e stilisti nel quotidiano, per abitare la vita come una casa, invece di sentirci in esilio proprio nelle sue stanze. Forse basta essere un po’ più «matti» e coltivare la propria vita interiore che, anche se non si vede, è reale come una sorgente la cui acqua disseta a valle, per trovare persino in un sassetto il senso di tutte le cose.
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