Scusa, puoi spostare il telefonino?






[tratto da: Il sole24ore]

La voglia di social e la dipendenza da Instagram generano legioni di turisti che assediano opere e monumenti a caccia di una testimonianza da postare. Una prassi quotidiana che altera il nostro modo di viaggiare, conoscere, percepire l'arte e il reale. Una riflessione sul tema (e una mostra a Firenze)

Nella seconda metà del Seicento, nel suo Italian Voyage, Richard Lassels coniava il termine Grand Tour, un neologismo che fu adottato da gran parte dell’aristocrazia nordeuropea per riferirsi al viaggio culturale intrapreso dai rampolli delle miglior famiglie del continente nel nostro Paese. Perfezionare il proprio sapere, vedere di persona quello che fino a poco prima si era soltanto letto nei volumi conservati nelle biblioteche: viaggiare era un modo per conoscere, per crescere, per ampliare i propri orizzonti mentali, e l’Italia era il luogo verso cui ci si dirigeva per toccare con mano le radici e i tratti salienti della nostra civiltà.
Complice la diffusione della cultura romantica, nel corso del Settecento il Grand Tour diventa una vera moda. In migliaia arrivano nelle nostre città e nelle nostre regioni più importanti. I racconti di quelle esperienze (firmati da Goethe e Chateaubriand, solo per citarne alcuni) divengono eccezionali testimonianze dell’Italia del tempo e fonte d’ispirazione per altri viaggiatori. Già nella seconda metà dell’Ottocento, un console britannico di stanza in Italia manifestava di aver scoperto un “nuovo male”: gruppi di quaranta/cinquanta persone che giravano nei nostri centri muovendosi in modo gregario, compatte dietro la propria guida come un gregge dietro al cane pastore.



La Primavera del Botticelli assediata dai telefonini

Oggi, in questo nostro mondo globalizzato, viaggiare è un’esperienza accessibile alla maggior parte delle persone che conosciamo. Il numero di turisti su scala internazionale, inoltre, aumenta sempre di più grazie a mercati “emergenti” quali Cina, India, Russia e Brasile. Mentre la quantità di individui in partenza è aumentata a dismisura rispetto al passato, la lunghezza di queste esperienze si è compressa fino all’inverosimile. Alcuni amici coreani mi hanno raccontato che, da loro, offrono tour in Europa della durata di una settimana. Un tempo, come abbiamo detto, il viaggiare era connesso alla sfera della conoscenza: richiedeva tempo e denaro, era una dimensione elitaria a cui solo pochi acculturati potevano accedere; adesso, con l’avvento del turismo di massa, il confronto con il contesto locale e con l’altro diventa mediato, preconfezionato, lontano dalla costruzione di un dialogo degno di questo nome.
L’esperienza di viaggio non è più connessa alla scoperta e al sapere. Viene meno l’aura, il valore della realtà, le sensazioni e gli stimoli che da essa provengono. Si afferma un’attitudine a subire, una modalità di partecipazione passiva rafforzata dalle possibilità di ricreare istantaneamente l’esperienza che stiamo vivendo in una dimensione parallela e virtuale, su misura, grazie ai mezzi tecnologici che abbiamo costantemente tra le mani. Si è lì, al cospetto di opere e monumenti, ma in realtà si è altrove. Avrebbe forse più senso rimanere a casa, risparmiando soldi, e guardarsi quelle opere e quei monumenti su Google. Il web è immediato, intuitivo, ha tempi velocissimi e impone le sue logiche. Tutto ciò che va in contrasto con queste dinamiche, ha vita dura. Ormai, non si osserva più nulla. Immagazziniamo immagini nelle nostre memorie digitali et voilà, l’esperienza di viaggio è fatta.



Il momento selfie di una coppia di turisti davanti alla Venere, sempre del Botticelli, sempre agli Uffizi di Firenze

Il turista odierno è fisicamente presente, ma mentalmente assente; fa le corse per fotografare qualcosa, non sa bene la ragione per cui lo sta facendo, ma sa che deve farlo. L’azione è la condivisione, l’obiettivo il consenso. Il contrasto, quello vero, emerge tra l’effimerità del gesto e dei risultati (il post, i like) e la durabilità di dipinti ed edifici secolari. Si fotografa un monumento per gli altri, perché possa essere riconosciuto dagli altri, per dare testimonianza ad altri del proprio viaggio e della propria esperienza. Al Louvre tutti fotografano la Gioconda, agli Uffizi la Venere, al Reina Sofia (se potessero) Guernica, all’Accademia il David; perché all’Alte Pinakothek di Monaco nessuno fotografa il Compianto sul Cristo Morto di Botticelli? È sempre il Botticelli degli Uffizi, ma quel dipinto non ha alcun valore per le masse poiché non rappresenta un’icona.
Riflettere sull’identità del turismo d’oggi, su come ci avviciniamo alla cultura e all’arte, su come la tecnologia cambia la fruizione di quello che ci circonda. Riflettere sul nostro modo di conoscere. Grand Tourismo, il mio progetto ora in mostra alle Gallerie degli Uffizi a Firenze, vuole essere l’occasione per attivare un dibattito critico sulla disattenzione e sulla superficialità con cui ogni giorno affrontiamo il quotidiano, partendo dalla mercificazione dei patrimoni storici delle principali città d’arte, dove l’utilizzo di memory card ha sostituito l’uso del cervello. A guidarci nell’osservazione del mondo è sempre più la necessità di accumulazione e condivisione di immagini tutte uguali e omologanti. È il telefono a fare da filtro a ogni cosa che crediamo di aver visto.

L’AUTORE DI QUESTO ARTICOLO

Nato a Firenze nel 1983, Giacomo Zaganelli (di cui il sito di IL si è occupato qualche mese fa) si muove esplorando i territori di confine tra arte, architettura e cultura del paeseaggio. Fino al 24 febbraio, la sala 56 delle Gallerie degli Uffizi ospita il suo progetto Grand Tourismo, a cura di Eike Schmidt e Chiara Toti: tre video (Illusion, Everywhere but nowhere e Uffizi Oggi) che, ritraendo l’insaziabile sete fotografica dei turisti d’oggi, riflette sul modo in cui la tecnologia altera la nostra percezione dell’arte e del reale.

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